Sanremo: venerati maestri alla guerra con il Festival

Nel 1963 Vittorio De Sica e Cesare Zavattini partecipano alla prima giuria di qualità della storia del Festival di Sanremo. I risultati saranno a dir poco controversi. Almeno quanto le parole usate da


Non si può certo dire che tra i grandi autori e registi italiani e il Festival di Sanremo sia mai scoppiato l’amore. Nel corso delle 73 edizioni sono stati molti i registi (Carlo Verdone, Paolo Virzì, Dario Argento solo per citarne alcuni) chiamati a partecipare come giurati o presidenti delle giurie di qualità, peraltro talmente contestate per i verdetti emessi da far prendere la decisione di abolirle negli ultimi anni. Ma tre grandi maestri del nostro cinema con Sanremo hanno avuto rapporti particolarmente negativi. Vittorio De Sica e Cesare Zavattini si imbattono nel Festival nel 1963: nei due anni precedenti hanno firmato, De Sica dietro la macchina da presa e Zavattini alla sceneggiatura, un capolavoro dietro l’altro, prima La Ciociara e poi Il Giudizio Universale e stanno preparando il Boom e Ieri, oggi, domani. Accettano di far parte della commissione selezionatrice, la prima del genere a Sanremo. Assieme a loro ci sono, tra gli altri, il giornalista Giovanni Mosca, il regista teatrale Remigio Paone e il musicologo Gino Stefani. La commissione prende subito una decisione antipopolare, attirandosi una pioggia di critiche: esclude brani scritti da superbig seguitissimi come Domenico Modugno, Adriano Celentano, Renato Rascel, Tony Dallara e Umberto Bindi. Decisione in realtà che non si rivelerà felicissima perché i primi tre brani della classifica finale (Uno per tutte cantata da Tony Renis, Amor mon amour my love interpretata da Claudio Villa e Giovane Giovane portata sul palco da Pino Donaggio) non sono destinati a rimanere nella storia della musica italiana. La critica del tempo definisce il livello musicale di questo Festival il più basso da quando è nata la competizione e la responsabilità delle scelte della commissione è evidente. Ma l’accusa peggiore verso De Sica arriva dallo scrittore Giuseppe Marotta, autore, peraltro, dell’Oro di Napoli da cui il regista aveva tratto nel 1954 l’omonimo film. Marotta presenta un brano che la commissione boccia e pochi giorni dopo accusa in un’intervista il regista di Ladri di biciclette di non saper distinguere un endecasillabo da un manico di ombrello. De Sica risponde querelando Marotta.

Pier Paolo Pasolini invece si occupa di Sanremo occasionalmente, lo osserva con scetticismo da lontano. Nel 1969 sulla rubrica Il caos che tiene sul settimanale Il tempo illustrato scrive un articolo durissimo intitolato: Sanremo, povere idiozie che diventa una summa di tutto ciò che il Festival rappresenta in senso negativo. “E’ cominciato ed è finito il Festival di Sanremo, le città erano deserte, tutti gli italiani erano raccolti intorno ai loro televisori – esordisce Pasolini – Il Festival di Sanremo e le sue canzonette sono qualcosa che deturpa irrimediabilmente una società”. Ma Pasolini va oltre: perché attacca la contestazione che c’era stata a Sanremo contro i prezzi alti dei biglietti per vedere il Festival: “Non ci si rende conto che tutti i sessanta milioni di italiani, ormai, se potessero pagherebbero il prezzo di quel biglietto e andrebbero ad assistere in carne e ossa allo spettacolo di Sanremo – osserva il regista – Non è questione di essere in pochi a poter pagare quelle miserabili ventimila lire, ma è questione che tutti, se potessero, le pagherebbero. Tutti, operai, studenti, ricchi, poveri industriali, braccianti”. Pasolini aveva probabilmente ragione: basti pensare che all’epoca a vedere la finale di Sanremo erano quasi 23 milioni di telespettatori…

redazione
10 Febbraio 2023

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