Buon compleanno King Kong, tra cinema e antropologia

Era il 2 marzo del 1933 quando l’epocale pellicola diretta da E. B. Schoedsack e Merian C. Cooper conquistava le sale


King Kong compie 90 anni. Era infatti il  2 marzo del 1933 quando l’epocale pellicola diretta da E. B. Schoedsack e Merian C. Cooper conquistava le sale lasciando a bocca aperta gli spettatori fulminati dagli incredibilmente realistici – per i tempi, ma anche oggi non se la cavano male – effetti a passo uno a cura del “mago” Willis O’Brien.

Ma non è solo per questo che l’iconico ed enorme scimmione continua a popolare i nostri sogni e i nostri incubi. Se si va a scavare nella sua struttura, l’opera risponde perfettamente alle linee individuate dal sociologo Alberto Abbruzzese nel suo saggio più conosciuto, non a caso intitolato ‘La grande scimmia’. Secondo Abruzzese peculiarità dell’autore commerciale sarebbe di combinare materiali già presenti nell’immaginario del suo pubblico, cercando di creare all’interno dell’opera una serie di percorsi compresenti capaci di suscitare l’interesse di diversi tipi di fruitore. 

E il film di Schoedsack e Cooper fa esattamente questo, andando a scavare nel substrato più profondo della nostra coscienza collettiva, toccando tematiche rilevanti dal punto di vista antropologico, che risuonano nell’animo e nella memoria di ciascuno di noi.

E’ la storia di un duplice stupro. Il primo, forse il più evidente, soltanto accennato. A evocare fantasmi erotici, agli occhi dei più, è l’immagine – poi diventata celebre – della ragazza stretta tra le grinfie del bestione che la bracca, le dà la caccia, la cattura e poi la titilla con desiderio, mentre lei si abbandona priva di coscienza e totalmente passiva. Una visione le cui valenze orrorifiche, sadiche e masochistiche non hanno mancato di suscitare scandalo. Non a caso, tra le scene tagliate del film una delle più celebri vede Kong spogliare Ann, la sua “preda”, ed assumere un’espressione eccitata. Nonostante le dichiarazioni dell’attrice Fay Wray (“Avevo brandelli della mia gonna, che erano stati riattaccati assieme. Era come se fossero petali di un fiore, si può dire, ma dava l’impressione che gli spettatori hanno avuto, cioè che lui mi stesse togliendo i vestiti”), il riferimento a una sessualità animalesca, che sfiora l’infrazione del tabù della zoofilia, appare evidente.

Eppure Ann, alla fine della fiera, viene riconsegnata illesa al mondo urbano, senza soffrire alcuna effettiva forma di una violenza, del resto, impraticabile.

Ben più profondo e radicale, invece, è il sopruso subìto dallo stesso Kong, il cui ruggito si trasfigura nell’urlo di protesta di una Natura sofferente, lacerata e offesa da uomini “civili” e occidentali che la incatenano costringendola a buffoneggiare per rendere servigio a una Cultura già contaminata da una forma embrionale di spettacolarizzazione di massa (ricordiamo che nella versione del ’33 a capo della spedizione che stanerà il Gorilla da Skull Island c’è un ambizioso cineasta).

E la Natura, in prima istanza, si difende come può: esemplare, in questo senso, un’altra famosa sequenza – eliminata perché ritenuta troppo cruenta – di cui restano solo alcune foto, in cui i marinai scaraventati da Kong sul fondo di un pozzo vengono divorati da orrendi ragni giganti. Infine, si vendica: Ann non è che un pegno, un prezzo che gli invasori devono pagare per aver violato il territorio indigeno.

Kong incarna, tra le altre cose, un paradigma di “regalità divina” (è un peccato che il vero senso di quel “King” si perda nella percezione non anglofona del nome della creatura), paragonabile a quella di antichissimi esseri super-umani a cui si devono offerte perché la loro ira sia placata. Sono i Nativi, che conoscono la Natura e sanno come domarla, a porre Ann sull’altare e a lasciare che il Gorilla la porti con sé. Tutto, a questo punto, filerebbe liscio, peccato però che gli occidentali non ci vogliano stare.

Nella loro sconfinata hybris, non solo rivogliono indietro Ann, ma pretendono persino di ridurre Kong a fenomeno da baraccone, estrapolandolo dal suo contesto originario per condurlo, sottomesso, a quella che loro chiamano “civiltà”. Non sarebbe fuori luogo un’interpretazione di questo sviluppo narrativo come metafora di schiavitù e di irrispettoso tentativo di inculturazione.

Significati rilevanti, di cui si perde totalmente traccia negli innumerevoli sequel più o meno apocrifi: da quello ufficiale, Il figlio di King Kong, realizzato in fretta e furia dallo stesso cast tecnico e artistico del primo episodio per cavalcare l’onda del successo, passando per il mai realizzato King Kong contro Frankenstein, fino alle iterazioni più recenti in cui il nostro si scontra con Godzilla. Ancor più nel rifacimento del 1976 ad opera di John Guillermin sotto la produzione di Dino De Laurentiis, che cede purtroppo sotto i colpi di una trama zuccherosa (che modernizza i tratti dell’originale sostituendo la troupe cinematografica con un’equipe alla ricerca di giacimenti petroliferi) tutta incentrata sul rapporto di empatia “sentimentale” instauratosi tra un Kong molto incline alla lacrima e la sua partner umana, qui interpretata dalla più che mai seducente Jessica Lange.

Il film è però ricordato, a ragione, soprattutto per gli eccezionali effetti speciali che alternavano parti animatroniche (a opera del fuoriclasse Carlo Rambaldi) e trucchi prostetici (creati dall’altrettanto fenomenale Rick Baker). La carcassa del Kong abbattuto, realizzata da Rambaldi con grossi strati di lattice e crine di cavallo, venne a lungo tempo conservata nel parco dei divertimenti riminese Fiabilandia, per poi sparire in circostanze “misteriose” e ricomparire in Spagna, nel giardino di un ristorante il cui proprietario l’aveva acquistata e, purtroppo, smontata e rimontata per farla stare in piedi, con risultati non certo entusiasmanti.

Ci fu perfino un seguito tardivo, King Kong 2 (King Kong Lives! il titolo originale), sempre di Guillermin, con Linda Hamilton nel cast.

Lo scontro tra Natura e Cultura e il tema della regalità di Kong vengono invece recuperati nel remake del 2005 a opera di Peter Jackson che già, a quel tempo, aveva vinto la sfida di adattare per il cinema la trilogia de Il Signore degli Anelli.

Il film recupera la scena – molto forte – del pozzo con i ragni, aggiungendo insetti di ogni specie, tanto per sottolineare il concetto. E introduce inoltre una novità: scheletri giganti dalla struttura del tutto simile a quella del gorillone giacciono abbandonati in vari punti dell’isola. Dunque, Kong non solo è re, ma è l’ultimo della sua dinastia. Sovrano di un regno in declino, alla malinconica ricerca di una compagna, di un futuro, di una nuova terra. Per questo, pur di stare con Ann, si lascia catturare. Per questo parte alla volta di un nuovo mondo. Per questo, infine, non potrà che accettare la fine sua e del suo mondo, quello della Natura pura e incontaminata, abbattuto assieme a lui sulle cime di una torre che tocca il cielo, simbolo di un progresso tecnologico-culturale mostruosamente inarrestabile.

Il personaggio venne creato da Cooper in persona. L’idea gli venne parlando con l’esploratore scientifico del Museo americano di storia naturale W. Douglas Burden, che era rientrato da una piccola isola dell’Estremo Oriente dalla quale aveva portato il più grande rettile vivente mai trovato, il drago di Komodo. Cooper adattò l’idea della spedizione rimpiazzando il rettile con un gorilla. Evidentemente, una contrapposizione con Godzilla, che appunto appartiene alla specie dei rettili, era già nell’aria.

Oltre a ogni iterazione possibile e ‘ufficiale’ in ogni campo – da quello dei cartoni animati a quello dei videogiochi, passando anche per i fumetti. Divertente in questo senso citare in particolare Kong on the Planet of the Apes dei BOOM Studios! (2017), che fa incontrare due celebri franchise scimmieschi – il complesso narrativo konghiano ha ispirato anche diversi epigoni, spesso bizzarri come l’italianissimo – e trashissimo – Yeti – Il gigante del 20º secolo di Gianfranco Parolini, che millantava effetti speciali tecnologici sebbene il goffo pupazzo animatronico fosse stato costruito dai pupari di Viareggio, mentre per le scene in ravvicinata lo Yeti era interpretato da Mimmo Crao, giovane calabrese che aveva appena ricoperto il ruolo di Taddeo nel Gesù di Nazareth di Zeffirelli. 

Tra le curiosità relative alla funzione di Kong come icona moderna, invece, c’è la questione delle dimensioni: nel film originale del 1933, l’altezza di King Kong è incostante, cambiando a seconda delle scene tra 5,48 e 18 m. Anche nel remake del 1976 si varia tra i 12 e i 16 m. Al cinema conta l’effetto, più che la precisione. Nella versione giapponese della Toho, è alto 45 m nel film Il trionfo di King Kong e 20 m nel film King Kong – Il gigante della foresta.

Nel film del 2005, Peter Jackson ha deciso di ridurre le dimensioni a favore del realismo: 7,62 m a quattro zampe e 10 m quando si alza in posizione bipede (Tra l’altro, è l’unica versione in cui Kong usa saltuariamente la posture quadrupede).

Nel recente Kong: Skull Island è alto 31,7 m e questo ha portato un po’ di confusione, dato che tutti sapevano che nel film successivo, l’attesissimo Godzilla vs. Kong, la scimmia si sarebbe dovuta scontrare con il drago preistorico alto ben 120 metri. Ma la soluzione è arrivata facilmente. Skull Island si ambientava negli anni ’70, quando Kong era ancora giovane, quindi ha avuto il tempo di crescere fino alla rispettabile altezza di 10.

Non proprio la medesima del rivale, ma se Rocky può battere Ivan Drago, perché stupirsi?

 

 

  

  

  

  

   

Andrea Guglielmino
02 Marzo 2023

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