Salvatores: “Finché rideremo e piangeremo riusciremo a tenere testa alle macchine”

Il regista – al Bif&st per Il ritorno di Casanova – ha tenuto una masterclass: “sul set di Educazione Siberiana sono scappato nella mia roulotte a piangere”


BARI – Nell’attesa dell’anteprima de Il ritorno di Casanova, ultimo film di Gabriele Salvatores, al Bif&st 2023, il regista ha incontrato la platea del Teatro Petruzzelli per raccontare il suo cinema e se stesso, restituendo la propria visione delle storie su grande schermo, da Mediterraneo a Nirvana, mostrando e narrando con generosità anche le umane fragilità creative

Un racconto a stazioni, che comincia da Nirvana. “Un mese fa alla ‘Sapienza’ di Roma due professori hanno inaugurato un progetto sul Metaverso, sviluppando i personaggi del film: attraverso piattaforme puoi ora andare a dialogare con loro, un progetto finalizzato anche con Rai. Il film è del ’96 ed è curioso come ragazzi che lì non esistevano neanche siano incuriositi da questi temi, molto attuali. La realtà e la finzione ora sono sempre più difficili da distinguere. Il film nasce mentre stavamo girando il precedente con Abatantuono e Bentivoglio, si giocava al Nintendo e Diego chiese: ‘quando noi smettiamo di giocare, i giocatori cosa fanno?’. Questo mi aveva colpito. Contestualmente, Kurt Cobain decideva di togliersi la vita, lasciando un biglietto: ‘non riesco più a fare questo gioco’. Da qui l’idea. Ho sempre pensato: cosa ci facciamo qua? Chi decide tutto questo? Dobbiamo avere l’anima libera per pensare che la vita ce la facciamo noi il più possibile”.

Il film non manca certo di un elemento spirituale, infatti Salvatores racconta che “dopo Mediterraneo ho deciso di andare in India 2/3 mesi: non sono praticante buddhista, ma loro chiamano Maya la realtà, cioè ‘illusione’. Così come i primi pc avevamo la scritta ‘Guru Meditation’. Tutto questo mi ha smosso il discorso sulla spiritualità. Io non so se esista la reincarnazione, mentre per loro l’obiettivo è raggiungere il Nirvana, il momento di pace”. 

Nel film, Salvatores mette in scena anche la consapevolezza delle sue creature, che “è anche inquietante. È stato fatto un esperimento recente, dando all’Intelligenza Artificiale appunti sulla Gioconda: dalla macchina è uscita una cosa improponibile. Per fortuna la macchina non ha sentimenti: finché rideremo e piangeremo riusciremo a tenerle testa, perché le macchine non hanno l’anima”.

Un passo a ritroso nel tempo per Salvatores, che sempre volentieri racconta l’esperienza del Teatro Elfo Puccini, da cui tutto per lui è cominciato e afferma che “probabilmente è l’unica utopia che si è realizzata nella mia vita: senza avere parenti nello spettacolo, provavamo in una cantina di Corso Sempione o al Leoncavallo. L’Elfo è ancora lì, in centro a Milano, con la sale Shakespeare, la Fassbinder, la Bausch… È una tribù che continua a essere lì, aiutandosi nel passaggio delle stagioni: sono loro che mi hanno permesso di essere quello che sono. Essere un ragazzo negli Anni ’70 era particolare, c’era in giro una musica travolgente, un teatro fantastico, Strehler è stato il mio maestro, c’era il cinema indie americano che mi ha fortemente nutrito: c’era una forza creativa e emotiva enorme, a cui non potevi sottrarti. C’era il sogno di cambiare il mondo ed è giusto che ogni generazione abbia questa voglia, non l’abbiamo proprio cambiato ma c’era una bellissima energia e non ti sentivi solo, oggi sì: oggi hanno vent’anni di napalm sulle spalle e stanno a casa soli davanti a un computer, illudendosi di non esserlo. Il mio analista, da cui non vado più e da cui andai per avere delle pillole per dormire, diceva: “Persa l’illusione di cambiare il mondo, a volte galleggio, a volte affondo”. 

Ma come arriva il cinema nella vita di Gabriele Salvatores? “Nel ‘79/’80 mi scoprono una malattia particolare: mentre ero ricoverato mi dicono che ho 4/5 anni di vita. Per fortuna non era vero, ma in quel momento ho deciso avrei dovuto fare quel che avevo sempre desiderato: ‘se esco di qui comincio a fare il cinema’, mi dissi. È scattato qualcosa di importante che mi ha permesso di vivere del mestiere, un privilegio. E il cinema è diventato il sostitutivo della realtà; Fellini diceva che la realtà a volte è deludente: chi fa il mio mestiere lo sa bene e col cinema hai l’illusione di essere un deus ex machina; molti che fanno il mio lavoro si rifugiano nel cinema. Ma il cinema si paga: mi sarebbe piaciuto fare un figlio, ma non avrei avuto abbastanza tempo da dedicargli. Sempre l’analista mi diceva: ‘però ha i suoi film’. Beh, provate a tenere una pizza della pellicola sulla pancia, è diverso. Comunque, la prima volta – con Sogno di una notte di mezza estate – non sapevo… e spero di non pagar prima o poi un contrappasso per questo: non sapevo… ma avevo con me due maestri, Dante Spinotti e Gabriella Cristiani. La cosa che m’ha fatto più impressione erano le comparse vestite da elfi accampate di notte, i tempi lunghissimi del cinema, l’attesa all’inizio mi aveva spaventato. Molto più avanti, per Educazione Siberiana, la prima scena fu quella di un’alluvione: io sono arrivato sul set e sono scappato nella mia roulotte a piangere; a volte un film prende una dimensione tanto più grande di quella che avevi pensato, infatti non mi piace sentir dire ‘il mio film’, perché gli autori sono tanti, dagli attori al montatore che può addirittura riscriverlo, per questo il cinema è vicino alla vita: non puoi vivere da solo, non puoi fare un film da solo”.

Ma una tensione come quella provata, tanto da scappare e piangere, è sempre necessaria? “Sì, certo. Come nella vita: quello che ti fa paura lo devi guardare in faccia e affrontarlo con la voglia di superarlo. Ogni film all’inizio ti fa paura. Sono in uno strano momento, Casanova l’ho fatto un anno fa e sono ora in preparazione di un altro film, e il prossimo mi fa paura, ma è affascinante. Quando stai entrando in un film nuovo devi liberare testa e cuore, abbandonarti a un sogno: in sala di montaggio si dice ‘organizzare il materiale’, come si dice in psicanalisi”.

Salvatores è un regista che ama i propri attori, infatti conferma: “io li amo profondamente e cerco di proteggerli, a teatro ancora di più, quella è la casa dell’attore. Però la sensazione di amore per loro, che sono i primi a esporsi al pubblico, mi arriva dal teatro, per cui cerco di essere una specie di angelo custode: come gli acrobati, stendiamo insieme il cavo, ma mentre io sto sulla piattaforma, l’attore che deve camminare sospeso, per questo sono anche autori”.

Quello di Salvatores è un cinema che spazia eppure “c’è sempre un filo conduttore: Io non ho paura è totalmente diverso da Nirvana ma citando De André quando dice “ricorda Signore questi servi disobbedienti – Alle leggi del branco – Non dimenticare il loro volto – Che dopo tanto sbandare – È appena giusto che la fortuna li aiuti” io guardo a questi figli, questi sono i miei personaggi, e questo mi porta a spostarmi… Dopo l’Oscar a Mediterraneo mi hanno chiesto un remake con americani e giapponesi: come fai a pensarlo? Ma da quell’Oscar – che non so se meritavo, forse è stata un po’ una botta di culo, come la morsa del ragno di Spider Man -, da lì la voglia di spostarmi… Cosa potevo fare per restituire un po’ alla vita quel che mi aveva dato? Fare qualcosa che in Italia è difficile fare o non ti fanno fare. Grazie a quella Statuetta ho potuto alzare un po’ il desiderio. Per un po’ di tempo, l’Oscar non l’ho voluto avere intorno, per non sentirmi ‘il regista che ha vinto l’Oscar’, è pericoloso. Prima era in una banca, ma poi ci ho fatto pace: adesso è lì sulla libreria, è molto pesante, ottimo per tenere i libri. Senza nulla togliere al premio, è un riconoscimento molto connesso al mercato: quell’anno vinse anche Il silenzio degli innocenti, che ho amato molto, quindi la giuria era molto particolare”.

E il cinema italiano, è in estinzione? “Per vederlo in uno stato florido sarei matto. In Italia era già in crisi prima della pandemia, e tutta la grande offerta di serie e cinema in tv ci ha reso pigri. Però credo il cinema non morirà mai, è una forte esigenza per l’uomo entrare in una caverna buia e vedere i propri fantasmi proiettati. Non essere interattivi per due ore è fondamentale” e così l’insegnamento del cinema nelle scuole è fondamentale: “uno dei motivi per cui in Francia e Spagna continuano ad andare al cinema è perché lo conoscono e farlo conoscere ai ragazzi servirebbe a farli andare e tornare al cinema. Non è però solo un problema del cinema, ma sembra ci sia un disegno preciso teso a isolarci, con la pandemia esempio più efficace, una voglia di dividere le persone: insieme si trovano le persone, altrimenti ci si specchia in se stessi”.

Gabriele Salvatores, che domani presenta al Bif&st Il ritorno di Casanova, pensando proprio a questo suo film, fa solo un cenno citando Hitchcock, quando diceva: “…quello che per voi è soltanto un film, per me è la vita”. Ecco, conclude Salvatores ammettendo che anche per lui per lungo tempo è stata vera l’affermazione dell’autore britannico, però “oggi per me la vita è più importante del cinema, ma il cinema rende la vita più bella”. 

Nicole Bianchi
25 Marzo 2023

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