25 aprile, Resistenza e Liberazione nel cinema italiano

La letteratura di Fenoglio ispira Chiesa e i fratelli Taviani, autori de La notte di San Lorenzo e Una questione privata. Imprescindibili sono Roma Città Aperta, Paisà e Il generale della Rovere


“Uno dei momenti più alti della Storia del Cinema”, per Martin ScorseseRoma città aperta (1945). Ammutolisce, lacera, commuove l’intensità della scena madre in cui Pina (Anna Magnani) grida: “Francesco… Francesco… Francescoooooo…”, in un crescendo capace quasi di deflagrare, mentre lei corre disperata dietro alla camionetta tedesca che ha appena caricato il promesso marito (Francesco Grandjacque); lo strazio di lei che si vede strappare verso morte certa il compagno, lo strazio del corpo della donna che freddamente s’accascia a terra, sotto gli occhi dell’uomo che la naturale via imboccata del mezzo militare porta ad allontanarsi per sempre e sotto gli occhi innocenti del suo bambino Marcello, che indosso i panni da chierichetto non può far a meno di inseguire la mamma e riversarsi sopra di lei, stesa da una raffica. Il piccolo viene protetto dalla statura umana – e interpretativa – di Don Pietro (Aldo Fabrizi). Una sequenza, questa raccontata, che alla visione (anche se “ennesima”) non ricorda mai di essere cinema, ma sempre restituisce una verità da nodo alla gola, specchio di una realtà non costruita per la narrazione su grande schermo, ma propria di decine di episodi che gli sguardi umani sono stati costretti a guardare, e non era mai un film. 

Secondo la trama, dopo l’armistizio di Cassibile, gli Alleati sbarcati nel nostro Paese avanzano verso settentrione, ma ancora non giungono nella Capitale. Giorgio Manfredi (Marcello Pagliero), militante comunista e uomo di spicco della Resistenza, sfugge a una retata della polizia e si rifugia da Francesco, tipografo antifascista, che il giorno a seguire sposerebbe Pina, vedova e madre

Il film neorealista di Roberto Rossellini racconta il periodo dei nove mesi in cui i nazisti occuparono Roma. 

In Concorso al Festival di Cannes del ’46, ottenne il Grand Prix come Miglior Film; successiva anche una candidatura al Premio Oscar per la Miglior Sceneggiatura Originale; vinse due Nastri d’argento

Il 25 aprileFesta della Liberazione, si celebra la lotta di resistenza militare e politica delle forze partigiane durante la Seconda Guerra Mondiale contro l’occupazione nazista: il cinema non è stato a guardare questa questione che nasce dapprima sociale, politica, storica, e sin da subito – è proprio il caso di specificare il “subito” – ne ha fatto opera per il grande schermo, in primis con Roma città aperta appunto.  

Se dunque il cinema s’è fatto ambasciatore nell’immediato dopoguerra di un racconto realistico e di cui era ancora viva “la carne” nel tessuto del Paese, anche nei decenni successivi – e fino al presente più prossimo – il soggetto della Resistenza non s’è mai annebbiato, non ha mai perso d’interesse: dall’8 settembre ‘43 al 25 aprile’45, 20 mesidi lotta, di corpi caduti nel nome della libertà. Così il 25 aprile è il giorno dedicato al valore dei partigiani di ogni fronte, tutti quelli che hanno fatto propria la Resistenza, e che hanno espugnato l’occupazione nazista. 

E in questa “Storia”, sul grande schermo, naturale compagno di Roma città aperta, sempre un film di Rossellini, Paisà (1946). Il concetto del “corale” ritorna con efficacia e si scrive così un secondo capolavoro sul tema, sceneggiato con Sergio Amidei e Federico Fellini. Oltre che corale, Paisà è un film episodico: sei storie – Sicilia, Napoli, Roma, Firenze, Appennino Emiliano e Porto Tolle -, l’una indipendente dall’altra, in cui il macro racconto rievoca l’avanzata delle truppe Alleate in Italia. Una storia di un’umanità disperata, in cui la Resistenza sono i patrioti che a Firenze si immolarono per non far distruggere la città, o sono i disperati del Polesine che cercarono di fermare la ferocia nazista. Quella di Paisà è una Resistenza che rispecchia una lotta tormentata e coraggiosa, certamente impari, senza retorica e con una truce verità mostrata nella sua essenza. È un ritratto, quello della condizione dell’essere umano, e così il film si fa anche quadro della cruda sofferenza di un popolo. La pellicola, appunto dopo Roma città aperta, viene indicata come il secondo capitolo della Trilogia della guerra antifascista ed è anch’esso uno dei simboli del Neorealismo italiano: è stata anche candidata agli Oscar, come Miglior Sceneggiatura Originale.

Ed è ancora Rossellini – 13 anni dopo – a firmare una storia di Resistenza con Il generale Della Rovere (1959) – sceneggiatura di Indro Montanelli, Sergio Amidei e Diego Fabbri -, con compagno d’arte sulla scena un monumentale Vittorio De Sica, nei panni di Emanuele Bardone, truffatore incallito, che sopravvive disattendendo i parenti dei detenuti politici, millantando conoscenze, per intascare cibo e denaro. La questione però si svela presto e per salvarsi la pelle accetta di collaborare con il Colonnello Muller (Hannes Messemer), assumendo l’identità fittizia del generale Della Rovere, ucciso dai tedeschi per errore. In fondo l’arte di ingannare non lo lascia, perché Bardone/Della Rovere è incaricato di conquistare la fiducia dei detenuti di San Vittore per scoprire i capi della Resistenza. Il film è metafora di un’Italia vessata ma coraggiosa, col perenne attaccamento alla dignità, capace di sacrificio estremo

È poi il momento de La lunga notte del ’43 (1960), un’opera prima altissima quella di Florestano Vancini, dal racconto di Giorgio Bassani (contenuto in Cinque Storie Ferraresi). Vancini debutta riuscendo nell’equilibrio difficile ma tutt’altro che incerto di calibrare il senso e il sapore del cinema italiano con quello francese, con l’ulteriore bilanciamento perfetto tra realismo e finzione. La lunga notte del ’43 punta sulla dimensione intima più che sulla Storia, ancora “giocando” tra la verità e la bugia, poli in eterno conflitto, in una sorta di nebbia interiore che avvolge i personaggi di Belinda Lee, Gabriele Ferzetti, Enrico Maria Salerno e Gino Cervi. È la fame di vita, il bisogno di evasione, l’egoismo dell’individuo a tenere vivo il fascismo e dunque il film mostra la sua riuscita incompleta, restituendo più un senso di autoassoluzione che il Paese s’è dato. 

Quella di Silvio Mignozzi (Alberto Sordi) per Dino Risi è stata Una vita difficile (1961): nel cuore del Secondo Conflitto Mondiale, il personaggio protagonista si unisce alle forze partigiane, dapprima. Le abbandona, poi. La Liberazione gli permette il ritorno a Roma e il mestiere di giornalista: il film, dunque, prende vita dalla Resistenza per stendere il proprio racconto più sul periodo appena successivo, offrendo così profonde riflessioni sul presente, anche quello più recente. Questo film, al di là del tema del soggetto, è anche un’opportunità per il Sordi attore, proponendo con Silvio un personaggio lontano da tutto “l’italiano medio” che ha spesso messo in scena e in cui il pubblico lo identifica principalmente. Magnozzi cammina per vent’anni di Storia italiana e letteralmente per mezzo Paese, da un mulino lariano alle trattorie romane, non disdegnando la vita notturna della Versilia. Dalla miseria al boom, Sordi – che nel film ha una moglie, Elena (Lea Massari) – è un piccolo eroe nostrano. 

Nelle pieghe della Resistenza più popolare e umana c’è Nanni Loy con Un giorno da leoni (1961): i suoi giovani decidono di abbracciare una lotta importante per il Paese, ma altrettanto decisiva per la loro crescita personale. Dopo l’8 settembre 1943 un gruppo di loro compie un’azione di sabotaggio su un ponte nella zona dei Castelli Romani. La storia parte dai giorni immediatamente successivi all’armistizio, seguendo i destini incrociati dei tre protagonisti – Danilo (Nino Castelnuovo), Michele (Leopoldo Trieste) e Gino (Tomas Milian) -, tre antieroi che finiscono per unirsi alla lotta partigiana, compiendo un atto eroico anche a costo della loro stessa vita. L’azione di sabotaggio riesce – in seguito attribuita dal comando tedesco ai paracadutisti americani – ma costa l’esistenza a Michele. L’eroismo sta nel segreto per cui nessuno mai saprà che un gruppo di uomini comuni sia stato capace di vivere il proprio “giorno da leoni”.

Liberamente ispirato al racconto di Jorge Luis Borges, Strategia del ragno di Bernardo Bertolucci (1970) racconta di Athos Magnani (Giulio Brogi) che, dopo tre decenni dal fatto, torna a Tara, paese natale del parmense, e investiga sul misterioso omicidio del padre, eroe della Resistenza. Athos incontra Draifa (Alida Valli), amante del genitore, ma fonte di poche e confuse notizie, così anche i compaesani non si dimostrano molto disponibili a parlare, ma la voce popolare indica nel ricco possidente Agenore Beccaccia l’assassino, o comunque il mandante. S’insinua la questione: Magnani, il padre, fu eroe o traditore? Bertolucci raccontava di essere stato non poco influenzato dall’arte surrealista, dai quadri di Magritte, in particolare da La riproduzione vietata, ritratto di un uomo di schiena nell’atto di specchiarsi, in cui non legge però il proprio riflesso ma la figura da dietro, una visione che Bertolucci ripete nella visione cinematografica con l’uso del flashback.

25 aprile 1945. Mussolini (Rod Steiger) fugge da Milano con l’amante Claretta Petacci (Lisa Gastoni), dopo che il cardinale Schuster (Harry Fonda) gli propone di arrendersi al Comitato di Liberazione Nazionale. L’ex Duce si reca sul lago di Como con la decisione di superare il confine svizzero: se non la fuga, cerca di assicurarsi la consegna di sé agli Alleati, che gli garantirebbero un processo, a differenza dei partigiani. È questo Mussolini – Ultimo atto (1974) di Carlo Lizzani. Gli ufficiali tedeschi in ritirata lo travestono da soldato della Wehrmacht e lo scortano, ma Mussolini viene riconosciuto da un gruppo di partigiani: da Milano, il CLN dà l’ordine di eseguire la condanna a morte. Se Lizzani fa dire alla Petacci: “I serpenti vanno schiacciati prima che muoiano”, l’autore punta con questo film sugli ultimi giorni del fascismo e dell’occupazione tedesca dell’Italia. Lizzani mostra, non condanna ma procede con magistrale misura, con realismo, sprona alla riflessione, senza epica. 

Tra realtà e finzione è La notte di San Lorenzo (1982) dei Fratelli Taviani – sceneggiato con Tonino Guerra e Giuliano G. De Negri. Il film è ispirato dalla strage del Duomo di San Miniato, per lungo tempo attribuita ai tedeschi, mentre la verità storica ha poi raccontato che fu un errore durante un bombardamento americano. Il film – premiato a Cannes con il Grand Prix della Giuria – racconta un massacro che non fu dunque commesso dai nazisti: il tono della tragedia classica, la crudeltà, il folklore e la Storia, ma soprattutto una storia sulla manipolazione e sul dolore, però – nella visione – abbracciata dalla pace dell’incantevole Natura. 

È Beppe Fenoglio, scrittore, a sua insaputa a dare il là a due racconti cinematografici sulla Resistenza: Il partigiano Johnny (2000) di Guido Chiesa Una questione privata (2017), ancora dei Taviani

Il primo, interpretato da Stefano Dionisi, ha in sé intensità e passione, densità proprie del racconto così dell’attore nei panni di Johnny, studente universitario che dopo l’8 settembre 1943 diserta e ritorna a casa, nella natìa Alba, unendosi ai primi nuclei della Resistenza. Il film di Chiesa è onesto, duro, cerca poesia ma non facile retorica: la resistenza di Chiesa è fame, è generosità, è morte, e tutto si compone anche nel nome di un coro d’attori efficaci: Fabrizio Gifuni, Claudio Amendola, Giuseppe Cederna, Umberto Orsini

Come accennato, ancora da Fenoglio, anche Una questione privata: è considerata come l’opera più enigmatica dello scrittore piemontese, certamente metaforica e molto intima. Il partigiano Milton (Luca Marinelli) è all’affannosa ricerca dell’amico Giorgio (Lorenzo Richelmy) e lo cerca tra la montagna e la nebbia, in una terra, le Langhe, che è teatro di guerra. Il film dei Taviani è sapiente nel far parlare i giovani uomini e donne di entrambi i fronti, perché – nonostante la posizione – è la speranza a essere stata annullata, con lei la capacità di sognare, il tutto deglutito della morte. 

Gli occhi di una piccola bambina, Martina (Greta Zuccheri Montanari), per il tributo alle vittime della strage di MarzabottoL’uomo che verrà (2009) – scritto e diretto da Giorgio Diritti – sceglie una creatura innocente e il suo mutismo, che però non la limita a cogliere sfumature di verità della vita, comprese quelle del dramma e dell’imminenza della strage. Diritti – con una estrema sensibilità – fa la cronaca dei crimi della guerra, quella guerra, qualsiasi guerra: non si crogiola nella mostruosità della visione, troppo facile per impressionare, piuttosto offre il punto di vista della popolazione inerme, di chi innocentemente e senza “armi di contrasto” fu vittima della ferocia nazista. 

Nicole Bianchi
25 Aprile 2023

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