Jia Zhang-ke: “Alla ricerca del tempo perduto”

Presidente della giuria del 36° Tff, Jia Zhang-ke ha portato al festival anche il suo nuovo film, I figli del Fiume Giallo che uscirà in Italia a inizio 2019 con Cinema


TORINOPresidente della giuria del 36° Tff, Jia Zhang-ke ha portato al festival anche il suo nuovo film, I figli del Fiume Giallo che uscirà in Italia a inizio 2019 con Cinema. Si tratta di una gangster story dai molti risvolti, con aspetti documentaristici e altri di commedia, che ha al centro un’eroina molto forte, Qiao, truffatrice e all’occorrenza violenta, ma anche dotata di una forte tempra morale, un personaggio che ribalta i ruoli tra maschile e femminile. A incarnarla Zhao Tao, musa e compagna del regista, premiata in Italia con il David di Donatello per Io sono Li di Andrea Segre. che della sua Qiao dice: “La sfida più grande è stato riuscire a interpretare il cambiamento della sua personalità. All’inizio è una ragazza semplice di provincia, ma diventa una donna tosta e dura. Per arrivare a questo risultato ho studiato tanti documenti storici e mi sono imbattuta in una donna vissuta negli anni ‘30 e ’40 a Shanghai, una donna di mafia, che ha vissuto la sua vita tra amore, tradimenti, guerra e prigione”.

All’inizio del film, che è il più costoso di questo regista, Qiao è l’amante di Bin, un boss della malavita organizzata (Liao Fan), una vera leonessa che ama le pistole e non esita a sparare per difendere il suo compagno dall’aggressione di una banda di teppisti che gli sta spaccando la testa. Ma quando esce dal carcere, dove ha scontato cinque anni al posto di Bin per detenzione di arma da fuoco, trova una Cina profondamente cambiata e un’altra donna accanto a lui. Deve arrangiarsi per risalire la china – e le sue fantasiose truffe sono una parte molto divertente di un film che alterna il registro drammatico a quello più leggero – e cercare di rifarsi una vita, pur non dimenticando mai Bin. Spetta a lei – e non al debole e mutevole ex compagno – rappresentare il senso dell’onore degli Jianghu (la Triade mafiosa), mentre l’uomo è pronto a cambiare pelle pur di restare a galla legandosi a nuovi business apparentemente più puliti. Leone d’oro alla Mostra di Venezia con Still Life (2006), il 48enne Jia Zhang-ke è uno dei registi indipendenti più amati, capace di portare la ricerca documentaristica dentro alla finzione, come accade in questo film che segue le peregrinazioni di Qiao dal Sud al Nord della Cina con vari mezzi di trasporto, dal battello al treno, e racconta ancora una volta la costruzione della Diga delle Tre Gole sul Fiume Yangtse e la conseguente deportazione di intere popolazioni. Per girarlo ci sono voluti sei mesi e 7.700 km sono stati percorsi dalla troupe. 

La gestazione del film è durata a lungo e ci sono immagini girate anche all’inizio del XXI secolo.

Sì, ho lavorato per tre anni al film, interrogandomi attorno ai temi della cultura cinese Jianghu che ha un doppio significato, vita drammatica e vita pericolosa. Questa storia si svolge nel corso del tempo, dal 2001 al 2018, con drastici cambiamenti nei valori e nella vita quotidiana. Le immagini che vedete in parte le ho girate io stesso con le videocamere che porto sempre con me dal 2001, mentre le riprese vere e proprie sono avvenute con varie attrezzature, sia in digitale che in pellicola. Il film inizia con un frammento girato su un autobus pubblico: ho usato quella sequenza perché i viaggi hanno un ruolo fondamentale nella mitologia dello Jianghu.

Nel precedente Al di là delle montagne, del 2015, era un triangolo amoroso a guidare lo spettatore, qui è una coppia che si separa, per poi ritrovarsi e perdersi di nuovo.

Sia Qiao che Bin mantengono la loro libertà perché credo che in loro ci sia, sopra ogni altra cosa, una natura ribelle. Questa coppia vive ai margini della società. Sopravvive sfidando l’ordine sociale convenzionale. Ho cercato di immedesimarmi in loro e nelle loro disgrazie. Per certi aspetti, mi hanno fatto ripensare ai primi dieci anni della mia carriera, quando per me era rischioso fare film che esprimessero con chiarezza i miei sentimenti e i miei pensieri nei confronti della società. 

Il cambiamento sembra essere la cosa che più la interessa, la sua ossessione.

In questi anni la Cina ha vissuto folgoranti e radicali cambiamenti, c’è stata molta distruzione ma sono anche arrivate delle cose nuove, che si esprimono anche a livello dei sentimenti degli individui, della sofferenza personale, oltre che nella società. Quando tutto è distrutto, la cenere rimane e dalla cenere può nascere qualcosa. Io sono nato nel 1970 in piccola città provinciale del Nordovest, nel ’93 ho cominciato a studiare all’Accademia del cinema di Pechino e nel ’98 ho debuttato con il mio primo film, quindi quest’anno compio vent’anni di carriera. Ed è vero, il tema del cambiamento mi ha sempre affascinato: riguarda lo spazio e il tempo, ma anche la società e i rapporti umani. In questo film ho usato un’ambientazione particolare, lo Jianghu, per raccontare la trasformazione di valori.

Stavolta ha collaborato con un direttore della fotografia europeo, il francese Eric Gautier. Com’è andata?

Yu Lik-Wai, mio consueto collaboratore fin dal mio primo lungometraggio Pickpocket, era impegnato nella preparazione del suo film da regista. Così insieme abbiamo pensato a Gautier, il dop di Olivier Assayas, Walter Salles e Léos Carax, come potenziale sostituto. L’ha contattato lui stesso perché parla molto bene il francese. Eric ha rispettato il materiale che avevo girato con la mia vecchia videocamera, abbiamo deciso di usare cinque macchine da presa per il film, in modo che le diverse texture dell’immagine potessero aiutarci a sviluppare il racconto sul filo del tempo che passa. E’ riuscito ad amalgamare le diverse sorgenti e la grana delle immagini ci restituisce i ricordi di momenti diversi del passato. 

Cristiana Paternò
01 Dicembre 2018

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